PRENDITI A CUORE
Inserito il 15 luglio 2013 da Silvia CROCI
Riporto il mio intervento al II Convegno Medoc “Promozione della salute e del benessere nel lavoro e nella vita” tenuto a Forlì il 21 giugno 2013. Tratta di come lo psicologo-psicoterapeuta collabora con il Medico Competente del Lavoro per migliorare e permettere il reinserimento lavorativo di soggetti con disagi, anziché discriminarli e vittimizzarli.
“Mi chiamo Silvia Croci e sono una psicologa psicoterapeuta. Collaboro con Medoc dal 2006, di cui sono Responsabile del Settore di Psicologia. In questi anni, molti sono stati i casi di disagio psichico, che in qualità di psicologa, mi sono stati segnalati sia dal dott. Ricci Bruno che dai medici della Medoc e di cui mi sono occupata, collaborando in stretta sinergia con varie figure tra cui l’Azienda, il Medico Competente del Lavoro, il C.S.M. e il Medico Curante del lavoratore, i familiari , … Sempre previa autorizzazione del lavoratore, senza la quale non è possibile obbligarlo a sottoporsi a visita specialistica con la figura dello psicologo, si sono svolti i colloqui e gli approfondimenti testistici. Ed è l’Azienda, sensibilizzata dal Medico Competente, a sostenere l’onere degli incontri.
Quindi l’azienda che si prende a cuore il lavoratore e al contempo il lavoratore che prende a cuore se stesso, accettando gli incontri con lo psicologo. In medicina psicosomatica il CUORE è la sede dell’affetto (prendersi cura e amarsi) e sede e della spinta vitale (pulsione alla vita). Ognuno di noi nasce con la pulsione alla vita e la pulsione alla morte. E’ poi l’ambiente, inteso il contesto in cui viviamo (familiare, sociale, culturale, religioso, lavorativo ..) che fa si che si esprimano maggiormente, durante le fasi di vita, l’una o l’altra. PRENDERSI A CUORE quindi SIGNIFICA CAPACITA’ DI AMARSI = QUINDI SE IO MI AMO, IO MERITO = IO VALGO = IO SO AMARE ANCHE GLI ALTRI E SONO CAPACE DI STARE NELLA RELAZIONE (spesso in ambito lavorativo c’è l’incapacità nello stare nella relazione) ed ha a che fare con il CONCETTO DI AUTOSTIMA.
Cos’è l’AUTOSTIMA? Al di là della nostra volontà è qualcosa che ci appartiene, la si inizia a sviluppare sin da piccoli e la si continua ad alimentare con le esperienze di vita. Ognuno di noi ha di sé un’immagine, la quale è composta come un mosaico che lentamente prende forma in base alle risposte che riceviamo dagli altri e a come noi le percepiamo e interpretiamo. L’autostima può essere bassa, alta, positiva o negativa: ognuno è consapevole del fatto che la stima che abbiamo di noi stessi influisce sul proprio comportamento, sulle relazioni sociali e lavorative, sulla vita affettiva e familiare.
Non sempre il lavoratore ha la CONSAPEVOLEZZA DEL PRENDERSI A CUORE, spesso la acquisisce durante gli incontri con lo psicologo, assieme al diritto / dovere di prendersi a cuore. Pertanto è fondamentale l’intervento del MC che oltre a sensibilizzare l’azienda, deve trovare l’approccio migliore per QUEL LAVORATORE affinché possa iniziare il percorso del “prendersi a cuore”. Altro elemento fondamentale nel percorso verso la cura è anche la CONSAPEVOLEZZA DI MALATTIA; qualora scarsa o assente è dapprima il MC e poi lo psicologo che con empatia deve favorirla. In mancanza di consapevolezza di malattia (si parla di disturbo egosintonico) difficilmente è possibile iniziare un percorso.
Così come è difficile iniziare e continuare un percorso in mancanza di COMPLIANCE da parte del paziente, ovvero l’aderenza con la quale egli segue le raccomandazioni cliniche del medico, e assieme a lui propone suggerimenti per migliorare la strategia terapeutica.
Io non vedo il lavoratore in caso di manifestazione di DISAGIO ACUTO, spesso espressa con un acting out (agito) sul luogo di lavoro, come ad esempio abbattere porte, dare fuoco, sostare quasi nudo fuori dai cancelli aziendali, tentare un suicidio, abbandonare il posto di lavoro a causa di manie di persecuzione .. perché questi episodi vanno trattati con interventi medici di visita straordinaria che non potranno mai essere regolamentata da una legge ed e’ semplicemente una urgenza/emergenza che si trasforma in una inabilità temporanea assoluta, inviando il lavoratore al Medico Curante e alle strutture specialistiche di riferimento. In questi casi è come soccorrere un infortunio e avviarlo al primo soccorso perché in quel momento e’ d’obbligo un trattamento protetto. Pertanto noi demandiamo al Medico Curante l’onere della presa in carico e rivalutiamo poi il reingresso dopo 60 giorni per verificare cure, compenso e riequilibrio del lavoratore per reinserirlo nel lavoro senza rischi per sé e per altri da sé.
Nelle situazioni meno gravi invece punto di partenza è la presentazione del caso da parte del Medico Competente e del Datore di Lavoro rispetto alle problematiche rilevate, il colloquio con il lavoratore e l’eventuale relativa DIAGNOSI PSICOPATOLOGICA. Ho messo a punto una GRIGLIA DI VALUTAZIONE attraverso la quale in tre colloqui psicodiagnostici ed anamnestici, coadiuvati a volte anche dalla somministrazione di un test, emerge una diagnosi e l’evidenza se gli eventuali disturbi psicopatologici sono originati dal lavoro o fuori dall’ambiente lavorativo, se sono aggravati o meno dal lavoro.
Ciò è fondamentale per poi potere suggerire percorsi adeguati che anziché penalizzare o stigmatizzare il dipendente, favoriscano un suo BENESSERE ED UN RE-INSERIMENTO LAVORATIVO nelle condizioni migliori possibili per lui tenendo conto anche delle esigenze aziendali, ricreando le condizioni lavorative che permettano maggior serenità nello svolgere la mansione, come:
- un cambio di turno;
- un cambio di reparto, per problematiche nella mansione o nei rapporti tra colleghi;
- una non adibizione al turno notturno per non alterare il ciclo sonno – veglia;
- un periodo di malattia per recuperare forze e equilibrio;
oppure percorsi più complessi ed articolati, come:
- un invio al medico di base per la prescrizione di una visita psichiatrica al fine di una terapia farmacologica;
- un invio al medico di base per la prescrizione di una psicoterapia pubblica laddove non sia possibile un trattamento privato.
Per mia esperienza, sui casi esaminati … molto raramente ho potuto verificare che i DISTURBI PSICOPATOLOGICI siano originati in maniera unica sul luogo di lavoro. Per lo più sono aggravati dall’ambente lavorativo. Spesso sono originati nelle vicende di vita personale, legate alla famiglia, alle relazioni, come ad esempio lutti, separazioni, trasferimenti, oppure legati agli infortuni o alla salute, come ad esempio qualche trauma, incidente, invalidità, malattia fisica. Di seguito le varie psicopatologie riscontrate a seguito delle diagnosi effettuate.
Depressione 33%
Ansia 16%
Ansia – depressione – poco valore verso se stessi e il proprio operato – svalutazione esogena e endogena = concetto della frustrazione nel lavoro.
Disturbi di personalità – per lo più border e dipendente 14%
Psicosi – deliri e deliri persecutori 12%
Stress lavoro correlato 11 casi 10%
Burnout 4%
Disturbi dell’alimentazione 4%
Alcolismo 2%
Gioco d’azzardo 2%
Disturbi bipolari 1%
PTDS 1%
Disturbo dell’Adattamento 1%
Illustro il caso clinico di un operaio, il sig. Rossi Mario che ho seguito per 5 anni dal 2006 al 2011. Sposato con due figli piccoli. Nel 2006, al lavoro, dopo una pausa, sviene. Gli succede da due anni. Diagnosi del Pronto Soccorso: sindrome depressivo ansiosa con attacchi di panico. Da tempo assume ansiolitici. Negli ultimi 20 giorni ha dormito 8 – 9 ore in tutto. Sente sfiducia da parte degli altri; sul lavoro sente che dà il massimo ma che non viene riconosciuto. “Sono e mi ritengo l’ultima ruota del carro e non so chi sono”. Tante volte vuole morire. Anche la moglie soffre di attacchi di panico. Ha problematiche economiche in quanto è l’unico che lavora in famiglia. Prima di lavorare come operaio faceva l’artigiano e guadagnava 5 volte di più al mese ma doveva viaggiare sempre e ha preferito privilegiare la famiglia. Da due anni ha cominciato a farsi tante domande su chi è – cosa fa – cosa ha fatto fino ad ora – e si deprime perché non sta facendo la vita di suoi sogni. I turni di notte gli scompensano il sonno. Ha necessità di un turno diurno, come prescritto dal Medico di Base. Riscontro anche io una patologia depressivo – ansiosa con attacchi di panico. Gli consiglio un percorso farmacologico e un periodo di riposo al fine di recuperare il sonno; il Medico Competente da comunicazione all’azienda di necessità di astensione dal lavoro per circa tre settimane e al rientro di adibirlo solamente a turno diurno. Lo rivedo dopo un mese e il sig. Rossi mi riferisce di non riuscire a dormire da tempo: in 6 giorni 4 ore. Ha paura del buio. Spesso si blocca, stati di ansia, svenimenti sul lavoro. Il lavoro lo angoscia; non fa più il turno di notte e non riesce a lavorare di giorno. Assieme al Medico Competente chiamiamo il Medico di Base per una richiesta urgente di visita psichiatrica, entro tre giorni. Lo psichiatra prescrive antidepressivi e riposo assoluto per altre tre settimane. Quando lo rivedo, prima della ripresa del lavoro, noto che oltre ai sintomi ansioso – depressivi si sono aggiunti anche spunti persecutori “qualcuno mi vuole morto”. Lo ri- invio dallo psichiatra che aggiunge alla farmacoterapia anche antipsicotici. Su richiesta del lavoratore, accordo del Medico Competente e disponibilità dell’azienda si decide di modificare l’orario di lavoro (dalle 7 alle 15) permettendogli di avere relazioni familiari distensive, sia con la moglie che con i figli, che escono da scuola verso le 16. Nel frattempo un figlio viene operato di appendicite e l’altro ricoverato per problemi cardiaci. Questi avvenimenti lo sconvolgono. Fissiamo un ulteriore colloquio e una visita dallo psichiatra, che gli modifica la farmacoterapia aggiungendo ulteriori farmaci. Il sig. Rossi si scompensa, riporta di essersi sentito svuotato, senza niente in testa per una settimana; presente un discontrollo degli impulsi sul versante economico e una marcata aggressività. Decide pertanto, da solo, di aggiustare la terapia farmacologia. Sia io che il Medico Competente lo esortiamo a ricontattare lo psichiatra per concordare assieme a lui tale modifiche (compliance). Lo rivedo dopo due mesi. Dice subito che sta un pochino meglio. Si sente in equilibrio: senza eccessi né in positivo né in negativo. Il turno di lavoro dice essergli fondamentale. La famiglia gli da il senso della vita mentre una volta voleva uccidere se e loro. Sorride spesso. Avrebbe piacere di essere adibito ad una mansione in cui sentirsi maggiormente gratificato, come turno si trova bene ma è un po’ isolato. Gli ho consigliato di aspettare di fortificarsi maggiormente per affrontare poi cambiamenti lavorativi (è passato un anno dal primo colloquio – 2007). Lo rivedo dopo 2 anni, durante i quali mi dice avere passato periodi in cui si sentiva svuotato, periodi di buio. Si lamenta del lavoro piatto e della mancanza di stimoli. Non dorme. Va a letto a mezzanotte e fino alle 5 guarda il soffitto. Poi si alza per andare al lavoro. Gli spunti persecutori sono ritornati, dopo un periodo che era tranquillo. Parla per ore e mezze giornate con persone che non ci sono realmente (allucinazioni visive ed uditive). Gli capita quando è calmo e tranquillo. Ma ultimamente non riesce più ad alienarsi; ciò lo “costringe” a vivere la realtà e non riesce a chiudere occhio. Per trovare pace e serenità ha bisogno di distaccarsi e sconnettersi dalla realtà. Vorrebbe provare a fare un turno di notte perché la sera gli viene più voglia di lavorare. Dal mio punto di vista non escluderei invece di ricoverarlo per farlo dormire “chimicamente” e riuscire a regolargli il sonno. Potrebbe vivere questa proposta come qualcosa di persecutorio. E sarebbe un peccato perché dice che parlare con me gli serve e piace molto. URGE che riesca a dormire; mi confronto con il Medico Competente rispetto alla sua richiesta di cambio turno. Concordiamo che lo psichiatra lo visiti quanto prima per aggiustargli la terapia farmacologica e iniziare quanto meno a farlo dormire. Assolutamente impensabile che faccia il turno di notte. Come pure non renderlo idoneo al lavoro, in quanto potrebbe ulteriormente deprimersi. Spiego al sig. Rossi, in accordo con psichiatra e Medico del lavoro, che non si possono “fare prove” sulla sua pelle, dandogli il turno di notte; che nessuno si assume questa responsabilità. Che siamo seriamente preoccupati e che se non dorme è necessario assoluto riposo ed un eventuale ricovero. Lui al solo pensiero dice di avere nausea. Segue un intervento psico-educativo, sull’importanza di dormire la notte, quando è buio e di essere di sveglio durante il giorno con il sole, ponendo l’accento ai ritmi circadiani, ai ritmi sociali e familiari propri dell’essere umano. Lo psichiatra gli cambia la posologia della cura farmacologica. Cioè distribuita più verso sera. Lo rivedo dopo poco tempo e mi dice che è finalmente riuscito a dormire !! Sono due giorni che dorme da tre anni a questa parte. Ha riposato da circa mezzanotte, fino alle 5 della mattina. “Mi sento libero nella mente da pensieri brutti”. Fisicamente si sente più in forma, fino alle 10 circa di mattina, si sente un po’ più intontito ma poi più “dinamico”. Lo rivedo dopo un anno, dopo le feste natalizie e mi riferisce che durante le ferie è riuscito a dormire fino a 6h – 6h ½, ma non negli stessi orari. A volte di mattina, a volte pomeriggio e a volte di notte. Il fatto di non avere un orario di lavoro, lo ha messo nella situazione di fare quello che si sentiva, senza condizionarsi. In più non avendo avuto discussioni con nessuno (tolto i familiari non ha visto nessuno) non se le è “ruminate” durante le ore di sonno. Durante le ferie non si sente in colpa per non essere al lavoro, mentre se si dovesse ammalare o infortunare, l’assenza dal lavoro lo fa sentire in colpa o forse ha paura che non essendo “perfetto” lo possano licenziare. A un successivo colloquio di follow up, dopo qualche mese, il sig. Rossi mi dice che le cose sono migliorate. Riesce a dormire. E’ preoccupato che lo trasferiscano in un altro reparto da quello attuale in cui svolge una mansione che gli permette di non pensare troppo; teme un lavoro monotono e ripetitivo. Vorrebbe lavorare di notte per un motivo economico. Contattiamo l’azienda la quale è disposta a non trasferirlo e a farlo lavorare il sabato affinché guadagni di più. Ci vediamo per un ultimo colloquio. Il sig. Rossi riesce a dormire 5/6 ore per notte. Si sente più riposato, più fresco, più energetico. Vive bene, in pace, “mi sento pacificato”. Emerge una chiara percezione di sé. Con questo colloquio terminano le sedute.
Sono ormai passati due anni e non si sono più verificate problematiche.
Conclusioni
Questo è un emblematico caso in cui attraverso la collaborazione, la sinergia e la disponibilità di varie figure professionali quali il Medico Competente, lo Psicologo, lo Psichiatra del C.S.M. e il titolare dell’azienda, un lavoratore con gravi disagi psichici e psichiatrici è stato aiutato nel mantenere il suo lavoro e di conseguenza anche un equilibrio oltre che psico-fisico, anche relazionale e sociale.
La definizione di VITTIMA e’ chi subisce un danno o dagli altri o da se stesso. Se non ti ami, ti danneggi e subisci un danno. Chi non si prende a cuore e’ vittima di se stesso.
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