Ragazzi adottati….dott.M.Maini e dott.ssa D.Vettori
Inserito il 29 settembre 2014 da Maria Rosa DOMINICI
Ringrazio il dott.Massimo Maini,,collega della MAGISTRATURA ONORARIA MINORILE,conosciuto durante l’ultima riunione regionale dell’associazione,per l’invio di questo lavoro “Un lungo viaggio. Storia di un gruppo di ragazzi adottati”,già pubblicato nel 2012… interessantissimo ed attuale,buona lettura
Maria Rosa Dominici
Dott. Massimo Maini e Dott.ssa Daria Vettori
Prospettive Sociali e Sanitarie n. 8, Anno XLII Agosto 2012
Un lungo viaggio….storia di un gruppo di ragazzi adottati
Introduzione
L’intento dell’articolo che proponiamo è quello di raccontare la storia di un gruppo di adolescenti adottati. Per noi conduttori è stata una occasione unica per entrare in un mondo inesplorato e “misterioso”, per i ragazzi ha rappresentato l’occasione per ri-trovarsi in un luogo, fisico e simbolico, dove poter esplorare e condividere nuovi significati e sensazioni.
Per comprenderne le “origini” è importante raccontarne i passaggi fondamentali.
Alcuni genitori adottivi hanno proposto, nel corso del 2008, al Comune di Carpi (oggi Unione delle Terre d’Argine) di co-costruire un progetto orientato alla possibilità di offrire uno spazio di confronto per i propri figli. La responsabile dei servizi sociali minori ha accolto questa richiesta ritenendola un’opportunità unica di lavorare sulla prevenzione delle “crisi adottive” in età adolescenziale. Sono stati, quindi, individuati come conduttori una psicologa e uno psicopedagogista, entrambi esperti nel lavoro di gruppo con genitori adottivi e con adolescenti.
I ragazzi che partecipano a questa esperienza sono i “figli” adolescenti da 11 a 14 anni di un gruppo di genitori adottivi che si incontra oramai da oltre 10 anni. Provengono da varie parti del mondo. Arrivati in Italia prima dei tre anni, si conoscono e si frequentano da sempre e, pur essendo molto diversi fra loro, sanno bene ciò che hanno in comune.
Inizialmente, i ragazzi hanno accolto con diffidenza la proposta fatta dai propri genitori, perché nata da un desiderio dei grandi piuttosto che da una loro chiara consapevolezza e decisione. Fin dalle prime battute, dunque, abbiamo condiviso con i genitori che l’adesione sarebbe dovuta arrivare in modo diretto dai figli e che il gruppo non sarebbe stato un modo per conoscere i loro “segreti”. I ragazzi hanno confermato la loro disponibilità chiedendo proprio di vivere questa esperienza come intima e riservata.
“Il motivo del perché si (partecipare al gruppo)… perché mi andava …”
(F. 13 anni)
Il gruppo…la storia
Nel gennaio 2010 ci siamo incontrati per la prima volta.
La priorità, per noi conduttori era quella di costruire una relazione diretta e instaurare, per quanto possibile, un rapporto di fiducia basato sulla trasparenza e sulla chiarezza dei ruoli.
Nel corso del primo incontro, il clima era di un certo imbarazzo e prudenza, non fra loro, ma nei nostri confronti. Sembravano curiosi, interessati e hanno accolto da subito la nostra proposta di sederci in cerchio e di iniziare a conoscerci. In questa prima fase abbiamo potuto ridefinire i tempi e modi dell’incontro, e su sollecitazione dei ragazzi si è deciso di prevedere, uno spazio “merenda” in modo da compensare ai loro pranzi scarsi e affrettati! In diverse occasioni, abbiamo riflettuto su questo bisogno di “mangiare” che ritornava a ogni incontro, forse un bisogno di “riempire” i vuoti, quelli esterni, ma anche quelli interni, un bisogno di sentirsi oltre che di sentire.
Nel gruppo abbiamo tutti (compreso i conduttori) raccontato qualcosa di noi, mettendoci in gioco in prima persona, parlando delle nostre aspettative e dei dubbi. Fin da subito si e’ deciso di esplicitare il fatto che su di loro potevano avere influito in qualche modo le attese e i bisogni dei grandi e che, per tali motivi, era fondamentale ridefinire una loro motivazione. I ragazzi, sono riusciti a sorridere ricordando quanto i loro genitori avessero insistito, ma, nel contempo, tutti hanno chiarito di essere arrivati al gruppo quando si sono sentiti pronti.
In una prima fase abbiamo proposto ai ragazzi di lavorare utilizzando tecniche attive, poiché “Non e’ facile parlare di sé” ed “ E’ importante avere qualcosa che ci aiuti a rompere il ghiaccio”.
Da subito sono emersi vari livelli di eterogeneità: età, paese di provenienze ed età d’adozione. In particolare, in relazione all’età, abbiamo sentito una differente capacità di esprimersi e stare nel gruppo. Alcuni, “piccoli”, desiderosi di muoversi e giocare, altri “grandi” pronti al dialogo verbale e al confronto.
Il gruppo si e’ dato, inoltre, in modo democratico, delle regole, con il contributo di tutti ed attraverso un confronto vivace. Alla fine sono emersi pochi ma essenziali principi: ascolto reciproco, rispetto del punto di vista e dei sentimenti di tutti, “riservatezza” per i contenuti del lavoro insieme, costanza nella partecipazione. Inoltre, fin da subito, hanno dichiarato di non voler parlare dei contenuti né con i propri genitori, né con persone esterne al gruppo, chiedendo di poter considerare questo spazio come esclusivo e riservato.
Questo aspetto e’ parso essere fondamentale. Essi hanno infatti detto di sapere che i loro genitori si aspettavano di avere un feedback, ma che sentivano che questa garanzia di segretezza, avrebbe consentito loro di far uscire cose che altrimenti sarebbero rimaste inespresse.
I ragazzi sembrano vivere i loro genitori come fortissimi, una base sicura, ma anche fragilissimi, da proteggere, come se la loro sicurezza potesse essere minacciata da rivelazioni che riguardano il dolore dei loro figli, le paure, le domande. Fra loro si e’ materializzata l’immagine di genitori come “supereroi”, capaci di andare in capo al mondo per trovare proprio loro, ma per i quali, nel contempo, la sola idea che i figli possano sentire, pensare e farsi delle domande riguardo l’abbandono, le origini, il senso di diversità possono avere un effetto catastrofico, come una sorta di “criptonite” che riduce i poteri anche del più forte.
I ragazzi hanno espresso una grande curiosità di condividere, di parlare di sé e della propria esperienza di figli adottivi. Hanno raccontato anche la voglia di sapere cosa passa “per la testa” degli “altri” (genitori, figli non adottati, ecc.) che cosa provano oggi e hanno provato nel corso della loro storia.
L’utilizzo nei primi incontri, di alcune tecniche attive come la narrazione di sé attraverso immagini, il collage (Edelstein C.), il lavoro autobiografico, ha facilitato il dialogo ed ha consentito di costruire un particolare linguaggio del gruppo, e il “cerchio” è divenuto un contenitore nel quale sentirsi accolti e compresi.
La dimensione del gioco ha messo tutti alla pari: tutti si sono divertiti, sia quelli meno abituati a usare la parola come mezzo per comunicare in modo profondo, sia quelli in grado di raccontarsi e cogliere il senso. Tale contesto ha permesso di attivare un sentire condiviso, fatto di emozioni e sensazioni, una sorta di complicità e di “armonia”. Fin da subito sono parsi a loro agio e felici di avere trovato ciò che sembravano essere certi avrebbero incontrato: una condivisione, prima della parola, di sentimenti ed emozioni. Tra queste sensazioni, anche la condivisione della fatica di dovere riconoscere la mancanza di pezzi importanti della loro vita, che nessuno potrà mai narrare loro, scritti solo in una memoria del corpo inconscia:
“ Io non so cosa vuole dire non essere adottato…”
In uno scambio intenso, tra rispecchiamenti e differenziazioni si sono raccontati reciprocamente.
Sorprende il bisogno/desiderio di riempire i vuoti lasciati dal non sapere, da quello che non conoscono, non ricordano, ciò che nessuno gli ha mai raccontato perché nessuno sa. Pare essere stato, per questi ragazzi, difficile e poco usuale avere qualcuno che potesse prendere coraggio ed entrare con loro nella sfera del “possibile”, per poter insieme costruire una storia. Lavoro tanto importante quanto raccontare la verità, perchè simile a ciò che i genitori fanno per i figli che non possono ricordare i loro primi momenti di vita, una ricostruzione in cui le libertà “creative” sono concesse, anzi necessarie.
Il gruppo come spazio intersoggettivo
Quando noi conduttori abbiamo accettato di portare avanti il gruppo dei ragazzi ci siamo posti, fin da subito, una questione importante: come condurre il gruppo? Quali tecniche utilizzare? Come far emergere i racconti, i vissuti e le emozioni?
L’ansia e la paura dei genitori è arrivata, potente, anche a noi. Sapevamo che avremmo incontrato ragazzi che non presentavano gravi patologie, cresciuti in famiglie estremamente consapevoli e accoglienti ma che, nel contempo, in un luogo interno, forse da tempo inesplorato, vi erano i segni lasciati dal dolore dell’abbandono e dall’angoscia dell’assenza.
Spesso i genitori, così come i terapeuti, si sentono indifesi davanti ad una storia oscura e così piena di dolore. Meglio il silenzio, far finta che tutto possa essere stato dimenticato, sia dalla mente che dal corpo. L’angoscia di poter cadere nel “baratro” che, in queste storie, separa il prima ed il dopo, l’altrove ed il qui, rischia spesso di “congelare” il sentire sia nei grandi che nei ragazzi.
L’adolescenza, però, segna il riemergere di tali vissuti e sensazioni che si confondono con il sentimento di estraneità e angoscia, tipico di un’età in cui tutto riparte dal corpo e dai suoi linguaggi.
Dal lavoro terapeutico con bambini e adolescenti che hanno vissuto deprivazioni precoci, abbiamo imparato che spesso ci si trova a dover affrontare il silenzio della mancanza di una storia narrata e condivisa, di un’assenza di parole e gesti. Proprio in queste situazioni pensiamo sia necessario, in un primo momento, andare alla ricerca di una relazione pre-verbale, attraverso il corpo, il ritmo, una gestualità che annuncia la nascita della parola piuttosto che il suo significato predefinito.
Avere vissuto in età precoce un’assenza o una grave inadeguatezza delle figure di accudimento, lascia spesso segni profondi, talvolta indelebili e sempre doloranti. Il più delle volte questi bambini sono in difficoltà nel creare un’intimità psicologica e nel sintonizzarsi emotivamente con l’altro, manifestando difficoltà a trovare un “ritmo” comune, una consonanza, forse proprio a causa della mancanza della possibilità, direbbe E. Tronick (1998), di “espandere i propri stati di coscienza con la madre”.
D. Stern ripensando il fenomeno dell’intersoggettività nei gruppi ha sottolineato: “Le espressioni affettive raccontano i nostri pensieri e le nostre esperienze. Lo stesso vale per i gesti e i movimenti degli altri: possiamo sentire noi stessi muoverci in quel modo. Lo sentiamo nel nostro corpo e lo percepiamo nella nostra mente, insieme. Possiamo addirittura percepire l’esperienza di un intero gruppo di persone. Il nostro sistema nervoso è costruito per agganciarsi a quello degli altri esseri umani, in modo che possiamo fare esperienza degli altri come se ci trovassimo nella loro stessa pelle.” (D. Stern, 2004).
Inoltre, con Rugi G. pensiamo che: “Il piccolo gruppo è quindi il luogo ideale per osservare i movimenti intersoggettivi, ma anche le difficoltà e gli intoppi che ostacolano questi movimenti. Il gruppo terapeutico con disposizione a cerchio e vis a vis tende a scandire i tempi, i modi e il ritmo dello stare insieme, presiede agli scambi affettivi che implicano responsività, circolarità e reciprocità. Esso appare quindi il luogo ove i disturbi dell’intersoggettività emergono più facilmente, ma anche il luogo ove l’intersoggettività può essere realmente modulata e promossa”.
Se dunque questi ragazzi si sono trovati in qualche momento della loro vita precoce a vivere tali discontinuità, il gruppo pare essere il luogo ideale di con-tatto nel quale più che alle risposte si rinforza il valore all’esserci, del condividere uno spazio esterno ed interno. Così, anche nel nostro caso, nel gruppo e con il gruppo abbiamo cominciato a fare esperienza di soglie temporali, corporee e immaginative. Ognuno di noi ha cominciato a conoscersi attraverso la vicinanza e la prossimità a tali confini, superandoli, ampliandoli, fino a potersi ri-conoscere attraverso somiglianze e differenze.
Il gruppo è divenuto, in tal modo, uno spazio intersoggettivo d’elezione dove gli scambi, tra il piano simbolico e quello reale, sono stati originati da una intercorporeità vissuta e condivisa che ha attivato una comunicazione più “antica” di ogni parola possibile. Un luogo dove hanno potuto attivarsi fenomeni di risonanza emotiva, di sintonizzazione e di mentalizzazione: il gruppo “secondo me è un buon strumento per comunicare sentimenti ed emozioni che forse da solo non si riesce a dire e in compagnia forse si ha della forza in più” (R. 13 anni)
Essere adottati. Essere abbandonati.
I ragazzi che compongono il gruppo sono stati tutti adottati molto presto. Questo significa che essi condividono il fatto di non avere ricordi consci del proprio passato. Spesso abbandonati alla nascita, non hanno documenti che consentano loro di capire come sono andate “relamente” le cose. Inoltre, il più delle volte, i genitori hanno creduto di non poter dire molto di un passato così “breve” di cui, per altro, non si possono avere informazioni certe: “Noi gli abbiamo raccontato tutto quello che sapevamo…ma non sapevamo quasi nulla!” (Mamma di F, 13 anni).
Nel corso degli incontri le fantasie non sono mancate, sia nei genitori che nei figli, ma le fantasie e i sogni sono difficili da condividere e possono trasformarsi in minaccia. La paura di chiedere e la paura di raccontare, diviene un modo per proteggere l’altro, ma soprattutto se stessi.
Il fatto, però, di non poter condividere tali misteri rischia di portare anche nel qui, e non solo nel luogo fisico e metaforico delle origini, una mancanza di intimità, l’assenza di un care-giver capace di empatia e di rêverie. Rispecchiarsi nell’altro può fare troppo male e dunque spesso, inconsciamente, questi ragazzi, profondamente amati e desiderati dai propri genitori adottivi, vengono lasciati soli a convivere con quella parte sconosciuta del loro passato e, in quanto tale, spaventosa. Il figlio diviene portatore ed interprete di una tale estraneità da farlo apparire come “irriducibilmente doppio. Sempre minaccia e dono.” (U.Curi, 2010)
La possibilità del racconto delle origini, vissute o solo immaginate, diventa l’occasione, sia per i ragazzi ma anche per i genitori, di venire in contatto con una parte sconosciuta, straniera, che richiama esperienze e ricordi che affondano le radici in un passato confuso e spesso doloroso per entrambi.
Per molti dei ragazzi, adottati così piccoli, il dolore “conscio” è arrivato da poco. Essi raccontano di avere compreso solo da poco tempo il significato “vero” dell’essere stati adottati. Molti evidenziano come la pre-adolescenza abbia segnato un passaggio fondamentale in questa presa di coscienza. Un “riconoscimento” di qualcosa che già esisteva dentro di loro, una sensazione del corpo che li portava a ricercare qualcuno che potesse capire al di là delle parole e dei significati. In questo senso raccontano il piacere degli incontri fra loro ma, a volte, il fastidio dovuto proprio alla sensazione di essere vicino a qualcuno che puo’ svelare il segreto perché ne condivide le sensazioni.
L’adolescenza: chi sono io? Da dove vengo?
L’adolescenza di per sé rappresenta un periodo molto difficile.
Nella adolescenza adottiva figli e genitori si pongono le stesse domande: “Ma chi è questa persona che ho davanti? Che cosa abbiamo in comune, che cosa ci lega?”.
Al senso di estraneità tipico dell’adolescenza corrisponde, di fatto, l’attivarsi di fantasie e pensieri di un “altrove” non condiviso che trova proprio nel corpo il suo segno visibile. Questo innesca da una parte la possibilità di pensare di poter trovare in un luogo lontano e sconosciuto un senso di familiarità andato perduto, dall’altro invece la sensazione che queste emozioni mai provate così intensamente sono forse la conferma di una difficoltà a costruire un legame genitoriale con chi non è “sangue del proprio sangue”.
In questo modo le fantasie sulle “origini” invadono i pensieri di tutti, non solo dei ragazzi ma anche dei grandi, come se queste potessero risolvere quel senso di estraneità, dare risposte e chiarire sensazioni. Spesso questi significati risultano essere proiettati sui ragazzi, ai quali vengono attribuiti vissuti sconosciuti, che generano una oppositività dolorosa e difficile da tollerare.
Il fatto che i figli possano farsi delle domande sulla propria storia, sul senso del legame e dell’appartenenza è sentito come un attacco difficilmente tollerato in quanto, di fatto, va a risvegliare nei genitori adottivi le paure più profonde e mai dette: adottare un bambino non potrà mai essere come averlo “fatto”, forse ciò che questo bambino ha vissuto prima di me, ciò che io non conosco è talmente potente da impedire un legame ed una comprensione profonda di mio figlio…forse il “sangue non e’ acqua”.
Se questi genitori hanno creduto di poter vivere con i propri figli adottati una nuova nascita lasciando da parte ciò che era prima, ora sentono la paura creata da quella parte “estranea” e potente che già esisteva prima di loro, che apparteneva ad un altro mondo in cui si parlava un’altra “lingua”. E’ rimasto fuori allora, ed oggi ancora.
L’adolescenza, però, riapre i canali e può divenire un luogo d’incontro proprio a partire da un bisogno che si ripropone sia nei ragazzi che nei genitori di trovare un nuovo linguaggio, ma anche di co-costruire una nuova storia che tenga conto delle differenze e che non lasci fuori le sensazioni oltre che le parole. Una occasione per ri-conoscere, riscrivere le appartenenze in una sorta di contagio positivo.
Tale processo di differenziazione e scoperta del proprio sé, naturalmente, e’ faticoso per tutti perché chiede di perdersi per ritrovarsi. I ragazzi hanno bisogno di poter mettere insieme, senza paura, il presente ed il passato, il noto e l’ignoto, giocando tra la mente che sogna ed il corpo che sente senza sapere ricordare. Tutto questo è avvenuto attraverso le differenze e le somiglianze con i compagni del gruppo, ma anche con chi sta fuori: i propri genitori adottivi, chi non ha la loro storia, con storie e luoghi che rimandano alle origini.
In questo senso, però, l’urgenza di narrare una storia, la propria storia e di rendere esplicita ogni possibilità, tradisce il proprio fine. Se, infatti, il fine di ogni narrazione è quello di spiegare la verità, la narrazione tradisce se stessa ogni volta che si esplicita. Se la promessa di ogni racconto è quella di rivelare come sono andate “realmente” le cose, ogni volta delude. E’ necessario dunque rinunciare all’idea che ci sia una verità nascosta e che lo scopo del narrare sia “scovarla”.
In realtà è la narrazione in sé che fa stare bene e che fa sentire a casa.
Il gruppo, in tal senso, ha offerto la possibilità non solo di scambiarsi delle storie, ma di potersi scambiare con le parole, di potersi scambiare nelle parole e nei gesti.
Il cerchio: dal ritmo alla parola
Fin dal primo incontro è emerso il desiderio di creare un luogo, in cui poter parlare del certo, ma anche del possibile, accettando consapevolmente che non si possono trovare le parole per dire tutto. In particolare è emerso il bisogno di poter stare in una relazione inter-corporea senza temere di essere sopraffatti dalla paura e dall’angoscia, nel ricordo di storie senza odori e senza sguardi.
Nel gruppo, quindi, abbiamo dovuto imparare a lasciare andare qualcosa di noi, parte delle nostre sicurezze. Abbiamo dovuto accettare il rischio di entrare in con-tatto con qualcosa di estraneo. Abbiamo dovuto “assaggiarci” prima di tutto, un’esperienza di “degustazione” di noi stessi e degli altri. Un assaporare sensazioni, pezzi di storie, narrazioni e significati che ha avuto bisogno di un tempo di maturazione, un tempo per digerire. Lo sforzo iniziale è stato quello di fidarsi e accettare la indefinibilità dell’altro. Solo quando ci siamo sentiti “pronti”, siamo riusciti ad avvicinarci, a raggiungere quel labile confine che separa ma anche che unisce.
Così abbiamo dovuto trovarci per poterci riconoscere, abbiamo dovuto perderci, per poterci ritrovare.
Il gruppo e divenuto pian piano, uno spazio e un luogo di con-tatto, dove prima della parola, si sono incontrate sensazioni, riflessioni, occhi e mani. Uno spazio privilegiato perché protetto e tutelante dove si assisteva alla nascita di frammenti di storie, di frasi abbozzate, dove il gesto è diventato parola.
“Chissà se mia madre nativa (biologica) si ricorda quando è il mio compleanno?”, “Ma certo che si. Certo che si ricorda, sei nato tu?” (L. 13 e F. 14 anni)
Forse tale pensiero esisteva già prima di essere detto, sepolto o nascosto da qualche parte dentro di loro, nei loro ricordi corporei. Quello a cui abbiamo assistito è come un eterno parto, un atto inaugurale di significati e parole grazie al quale siamo stati in grado di espandere i nostri orizzonti, fino a far includere ciò che solamente fino a pochi momenti prima appariva come insensato o minaccioso.
Ci siamo “rimbalzati” l’uno con l’altro per poterci riconoscere, in un luogo dove l’alterità del mio vicino non e’ frutto delle proiezioni, ma un modo per interrogarmi su me stesso: “certo, io non vivo la loro vita, essi sono definitivamente assenti da me come io da loro. Ma questa distanza è una strana prossimità non appena si ritrova l’essere del sensibile, poiché il sensibile è appunto ciò che, senza muoversi dal suo posto, può abitare più di un corpo” (M. Merleau-Ponty, 2003)
In-contrarci ha voluto dire, prima di tutto, sintonizzare le nostre emozioni, le nostre reciproche intenzioni, dare inizio una danza intercorporea che ha permesso di abitare i nostri corpi e il gruppo come cassa di risonanza emotiva. Un sentire che ha costruito la melodia del gruppo, dove ogni voce e ogni gesto parla di sé e del gruppo, racconta la propria storia e quella dei legami che rappresentano la costellazione dei rapporti del singolo. Corpi che raccontano una storia passata che reclama la possibilità di una nuova narrazione, di nuovi significati.
Il gruppo pare avere avuto per i ragazzi questa funzione. Il cerchio è divenuto prima di tutto il luogo di sintonizzazione pre-verbale, in cui prima della parola si è imposta la presenza dei corpi. I ragazzi, infatti hanno potuto dire cosa stavano pensando, sentendo, desiderando, ma ancora prima lo hanno rivelato con i gesti, le posture, le espressioni.
Nel cerchio si sono permessi di immaginare come potrebbe essere andata, di provare a rispondere a domande senza avere soluzioni certe. Gli uni hanno, in modo “riflessivo”, riempito i vuoti degli altri, proponendo possibili storie e risposte. Questo ha portato il gruppo dal sentire alla parola. Non vi è stato più bisogno di usare strumenti o sollecitazioni, i ragazzi stessi hanno scelto di volta in volta su cosa lavorare arrivando a fare riflessioni importanti: sull’abbandono, sulla differenza fra essere “dato via” ed “affidato”; sul tema delle “origini” come un luogo e persone concreti o piuttosto una dimensione interiore, sul senso dell’appartenenza, sulle somiglianze e differenze; sulla percezione di poca empatia del mondo esterno nei loro confronti, come sulla loro sensazione, talvolta fuorviante di essere dei “diversi” che nessuno può, fino in fondo, comprendere.
Gli stessi ragazzi hanno parlato a lungo di come abbiano dovuto imparare a convivere con il fatto di non sapere molte cose della propria storia, e come le fantasie in certi momenti siano state loro di grande aiuto, in altri invece solo un modo ulteriore per confermare a loro stessi le loro paure ed insicurezze.
I ragazzi hanno condiviso l’idea che troppo spesso chi li conosce li etichetta come “quelli adottati” perdendo di vista tutto il resto, la scuola, gli amici, talvolta anche gli stessi genitori che parlano di loro agli amici o parenti più come “casi” che come figli. Infastiditi dalla morbosità e l’indelicatezza con cui gli vengono chieste cose della loro storia, o del loro paese d’origine, talvolta vorrebbero non avere questa storia, non essere sempre così visibili agli altri.
“Mi chiedo se si vede quando giro in strada che sono adottata” (A. 14 anni, Russia)
Nel gruppo i ragazzi hanno portato tutta la complessità di un proprio corpo es-posto, un corpo visibile che parla, abbozza già una storia che per quanto possa risultare assurda, inventata o fantasiosa rimane comunque possibile e pensabile. Il gruppo ha rappresentato lo spazio dove la parola rintraccia la propria genesi corporea, dove in ogni pensiero e in ogni frase accennata si intravede ancora per un breve istante, il sapore e il calore delle emozioni provate e condivise. Abbiamo fatto esperienze di com-prensione, prendere dentro significati altri ma anche, contemporaneamente, sentirsi presi dentro una storia che si stava costruendo in quel momento.
Questa esperienza è stata, ed è per noi conduttori, qualcosa di unico. In questi mesi ci siamo sentiti coinvolti in un’avventura dove l’imprevedibile è stato indubbiamente più potente di quanto da noi immaginato e “pre-visto”. Un’esperienza ad oggi non ancora conclusa, che ci ha portato a meravigliarci davanti a una eccedenza di significati che hanno preso vita nel corso degli incontri e che ha obbligato i conduttori a rimanere in ascolto, più che proporre. In un tempo tra il dentro e il fuori, tra il corpo e la mente, tra il reale e l’immaginario, nel quale vi era spazio per raccontare le loro storie, le nostre e per il silenzio. Sintonizzandoci in un ritmo, in una danza intersoggettiva fatta di sensazioni, emozioni e parole accennate.
Se, dunque, siamo partiti con l’idea iniziale di dover riempire un vuoto, con l’andare del tempo ci siamo resi conto che erano i ragazzi a creare il racconto del gruppo e a narrare la propria storia. Ci siamo sentiti chiamati a facilitare tali processi, aiutandoli a riconoscere e mettere in parole, sollecitandoli quando loro stessi si rifugiavano in stereotipi e tranquillizzandoli quando emergeva la paura che le cose espresse e quelle non espresse, i silenzi potessero essere un “pericolo” per il gruppo.
Ci siamo resi conto che stavamo tutti vivendo un’esperienza che ci avrebbe cambiato per sempre, un mondo di significati e contenuti rispetto ai quali ogni nostra esperienza futura non potrà che fare riferimento.
*Dott. Massimo Maini, psicopedagogista e filosofo, svolge la sua attività presso i Servizi Sociali Unione delle Terre d’Argine, Unità Territoriale di Carpi, dove si occupa di coordinamento di servizi di consulenza e tutela minori, supervisione di centri per adolescenti, e conduzione di gruppi per genitori e ragazzi. Fra i suoi ambiti di ricerca, il pensiero di Merleau-Ponty, la fenomenologia e la filosofia francese contemporanea, le problematiche relative ai temi della identità e alterità e i possibili sviluppi in ambito psico-pedagogico.
*Dott.ssa Daria Vettori, psicologa e psicoterapeuta. Collabora come consulente con Enti pubblici e privati conducendo progetti di promozione e formazione su temi dell’affido e dell’adozione. Lavora con famiglie, ragazzi e operatori sia nell’attività privata, che attraverso percorsi di gruppo. Ha lavorato presso il Children’s Hospital di Washington ed ha collaborato con la Berker Foundation, agenzia americana per l’adozione. Docente di “Pedagogia dell’affido e dell’adozione” presso l’Univesita’ degli Studi di Parma, Scienze della Formazione.
Curi U., Straniero, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.
Merleau-Ponty M., Segni, Il Saggiatore, Milano, 2003.
Rugi G., Empatia e intersoggettività nella psicoterapia di gruppo. Condivisione del dolore e neuroni specchio Psichiatra-psicoterapeuta. Didatta Istituto Italiano Psicoanalisi di Gruppo. Dir. Resp. U.O.S Osp. S. Giuliana Verona
Stern D., (2004), Il momento presente. In psicoterapia e nella vita quotidiana, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005.
Tronick E., Dyadically expanded states of consciousness and the process of therapeutic change. Journal of infant and mental health,1998.
Vadilonga F (a cura di), Curare l’adozione. Modelli di sostegno e presa in carico della crisi adottiva, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.